Leucemia linfoblastica acuta: la storia di Autilia

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Mi chiamo Autilia, ho 28 anni e sono di Torre del Greco; tuttavia, per un anno esatto (dal 15 aprile 2019 al 15 aprile 2020) ho vissuto a Salerno per combattere contro la leucemia linfoblastica acuta. La mia casa è stata l’ospedale Ruggi D’Aragona: bastava bussare al reparto di Ematologia e chiedere di me (anche perché, chiamandomi Autilia, non c’era possibilità di equivoci).

Dico che il reparto è stata la mia casa perché lì ho avuto la fortuna di conoscere tante persone meravigliose, medici, infermieri e operatori sanitari ed è grazie a loro e alla ricerca se oggi sono guarita e sono qui.

Hanno conquistato la mia fiducia sin da subito. E parlo di fiducia perché quando entri in un reparto di ematologia, quando ti viene diagnosticata una leucemia, vieni catapultato in un universo parallelo. Il giorno prima sei Auti, studentessa di architettura che vive di giornate in facoltà con i colleghi, quello dopo sei ‘Autilia, senti, il nome preciso è leucemia linfoblastica acuta delle cellule T e lunedì devi mettere il PIC così ti ricoveri e inizi subito le chemio’.

Era un venerdì, avevo compiuto da pochi giorni 24 anni ed erano arrivati i risultati dell’esame istologico da cui dipendeva tutto: io ero seduta davanti alla scrivania del Professor Selleri, il primario del reparto di Ematologia. Non mi disperai, non piansi. Prendevo appunti sulle note del cellulare di ogni parola come se stessi seguendo una lezione e quelle poche e preziose informazioni erano tutto quello che avevo per prepararmi al meglio per quell’esame. Uno dei tanti, nulla più, nulla meno degli altri che già avevo sostenuto e degli altri che avrei dovuto sostenere. La mia unica preoccupazione era che quella ‘scocciatura’ finisse in fretta per poter tornare a studiare davvero.

Un contrattempo, un inciampo sincopato sul mio percorso che, più che preoccuparmi, mi infastidiva. Non avevo tempo da perdere dietro cure, ospedali e tutto il resto, piegai piccola piccola la disperazione, la riposi in un angolino remoto della mia mente e cercai di organizzare e controllare tutto in maniera razionale, come avevo sempre fatto.

Ben presto, però, dovetti far i conti con la realtà: non potevo controllare proprio niente; la malattia decideva ogni cosa: il ritmo cadenzato delle chemio che scendevano goccia a goccia dalla flebo scandiva la mia giornata. Non avevo più la forza di fare anche le cose più stupide: più mi sforzavo di mantenere una routine, di leggere, di studiare addirittura, più mi rendevo conto di non riuscirci…mi arrabbiavo.

La maggior parte dei cicli di chemio li ho affrontati da sola, in una stanza sterile di 12 mq, dove potevano entrare solo medici e infermieri, indossando tute, o camici lunghi fino ai piedi, mascherina e guanti. Non potevano toccarmi, a meno che non fosse strettamente necessario, dal momento che il mio sistema immunitario era praticamente azzerato; pur vedendoli tutti i giorni, conoscevo solo i loro occhi e la loro voce camuffata dalla mascherina.

La finestra della mia stanza era chiusa da un vetro ed affacciava su un corridoio stretto: da lì, scorgevo i miei genitori che si alternavano un’ora al giorno per vedermi. Durante le giornate fatte di flebo, pillole e terapie, quando stavo male, programmavo cose da fare non appena fossi stata meglio: buttavo giù lunghi elenchi di cose da imparare, posti da visitare, pietanze da cucinare e mangiare per dimenticare i lunghi digiuni e le abominevoli creazioni della cucina ospedaliera.

Avevo iniziato quel percorso decisa a concluderlo il prima possibile e tornare alla mia vita, a quello che ero prima di iniziarlo; mi sono però ritrovata a volerne uscire diversa, a volermi migliorare, a non accettare più compromessi se in gioco c’era la mia felicità, a fregarmene di più, divertirmi di più, urlare di più, avendo speso una vita intera a modulare il tono della voce per sembrare razionale ed affidabile. Quando sei lì dentro, rimpiangi di non aver fatto tante cose.

Dei volti degli infermieri e dei medici non conoscevo più solo gli occhi, degli altri pazienti non più soltanto il nome, ma anche un po’ le storie e chiedevo di loro come se li conoscessi, pur non avendoli mai visti in certi casi. Lì dentro si diventa una famiglia, ognuno il suo percorso, le sue sofferenze e i suoi momenti no, ma sempre pronti a spendere una parola di conforto, regalare un sorriso o provare a far sentire meno solo l’altro, anche con un semplice sguardo.

Ora che vi ho raccontato un po’ della mia esperienza, potete capire quanto sia importante il ruolo dei medici e della ricerca, quindi l’AIL, per il supporto quotidiano, tanto al paziente quanto ai familiari. L’AIL porta avanti un lavoro enorme di assistenza, sensibilizzazione e ricerca, operando in maniera capillare su tutto il territorio nazionale, tramite volontari.

Ringrazio l’AIL per tutto quello che fa ogni giorno e per aver dato voce, tramite la mia storia, a tutti coloro che hanno combattuto e combattono una malattia del sangue. Anche chi non ce l’ha fatta. Non siamo guerrieri, come spesso ci sentiamo chiamare, siamo persone comuni, che hanno dovuto mettere in pausa la propria vita e la realizzazione dei propri sogni… mai più sogni spezzati!